(di Livia Parisi)
Dal 2018 sono raddoppiati farmaci a
rischio carenza, ma per otto su dieci esiste l'equivalente,
ovvero il medicinale senza brevetto, che ha lo stesso principio
attivo. E proprio grazie a questi farmaci, meno costosi degli
originator ma intercambiabili, sono derivati oltre sei miliardi
di risparmi alla sanità pubblica dal 2012 ad oggi. Ma questo
settore produttivo è in sofferenza, stretto tra il rialzo dei
costi di produzione, le gare a ribasso e gli oneri regolatori.
Arriva da Egualia, l'associazione che riunisce i produttori dei
cosiddetti 'generici', l'appello al Governo nel momento in cui
la manovra, appena approvata si appresta a iniziare l'iter
parlamentare: "Senza equivalenti il servizio sanitario non
reggerebbe, ma servono misure urgenti per salvare il settore".
Tra queste una revisione del payback farmaceutico.
Occasione di confronto tra istituzioni e industria è stata
la presentazione dell'Osservatorio Nomisma 2024. Negli ultimi
cinque anni, ricorda il rapporto, la carenza di farmaci è
diventata un problema sempre più pressante e l'Italia è tra i
Paesi più colpiti. Secondo i dati dell'Agenzia italiana del
farmaco nel periodo 2018-2024 il numero di farmaci a rischio
carenza è passato da poco più di 1.600 a oltre 3.700. Quasi la
metà (44%) delle carenze registrate nel 2024 è dovuta alla
cessazione definitiva della commercializzazione dei farmaci con
brevetto, mentre poco più di un quarto a problemi di produzione.
"I produttori degli originator spesso non trovano vantaggioso
produrre farmaci per trattare malattie meno redditizie, anche
per questo equivalenti sono sempre più essenziali per la cura
delle patologie croniche complesse", si legge.
Inoltre sono sempre più essenziali per la sostenibilità
della sanità pubblica, perché, "facendo spendere meno in
farmaceutica, consentono di spendere meglio in altro", ha
sottolineato anche il sottosegretario alla Salute Marcello
Gemmato. Basti pensare che, se tutte le confezioni di
equivalenti interamente rimborsati dispensate nel 2023 fossero
state vendute ai prezzi dei brand, la spesa farmaceutica sarebbe
aumentata di 460 milioni di euro. E dal 2012 ad oggi la cifra
avrebbe raggiunto i 6,2 miliardi. Il rapporto mette però in
guardia dal rischio di 'take for granted', ovvero di dare per
scontato questo comparto. "Il quadro è più allarmante rispetto
al passato - ha spiegato Lucio Poma, chief economist di Nomisma
- . Una settantina di aziende sono state interessate da chiusure
o fusioni, con una diminuzione della concorrenza. E un
indebolimento del sistema - ha proseguito Poma - si tradurrebbe
nell'aumento delle carenze e nell'impossibilità di sostenere le
cure di alcune malattie croniche".
Il presidente di Egualia, Stefano Collatina, chiede di
"invertire la rotta, già in questa legge di Bilancio", a partire
dal "rivedere le procedure di gara orientate al massimo ribasso"
e "togliere oneri impropri sulle imprese. In quest'ottica va
ripreso il confronto sulla governance ed eliminato il payback
farmaceutico", ovvero il meccanismo di ripiano in base al quale,
in caso di superamento del tetto della spesa farmaceutica, le
aziende devono contribuire a ripianare l'eccedenza insieme alle
Regioni: "una distorsione tutta italiana e che abbiamo ereditato
dai altri governi", per usare le parole di Gemmato. E su questo
una novità arriva dalla conferenza delle Regioni, dove è stato
trovato un primo accordo per una nuova ripartizione, in base
alla quale tutte le Regioni che sforano il tetto di spesa
saranno tenute a farsi carico del 50% della spesa, a fronte del
fatto che alcune, negli anni passati, avevano dovuto contribuire
fino al 75%. Ma niente di nuovo per quanto riguarda le aziende.
Resta invece acceso il dibattito sulle risorse per la
sanità in manovra. Dopo le polemiche dei sindacati dei medici,
il sottosegretario alla Salute Gemmato torna sul tema. "La legge
di bilancio, non solo conferma il livello di spesa che i governi
avevano dato al Servizio sanitario nazionale a partire dalla
pandemia Covid, ma mette sopra altre risorse".
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