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Biennale Teatro, una donna e i suoi fantasmi di Gallorano

Biennale Teatro, una donna e i suoi fantasmi di Gallorano

Elegante e intenso lavoro ispirato a fotografa suicida Woodman

VENEZIA, 17 giugno 2024, 13:55

Redazione ANSA

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(di Paolo Petroni) Uno spettacolo molto bello, elegantissimo e intenso, fisico e astratto allo stesso tempo, questo 'Crisalidi' firmato da Ciro Gallorano, il cui progetto ha vinto il premio Biennale College Teatro per la regia under 35, ispirato alla vita e alle opere della fotografa Francesca Woodman, morta suicida a 22 anni nel 1981. Dalle sue particolari immagini dagli echi surrealisti e dal suo mondo interiore è nato allora uno spettacolo tutto visivo, senza parole, che pare riproporre quel teatro-immagine degli anni '70, e che esplora un mondo femminile ferito, alla faticosa e dolorosa ricerca di sé, di quegli inafferrabili fantasmi interiori che condizionano e imprigionano un'esistenza, ma qui senza soluzione. A dargli letteralmente corpo, ma anche anima, nel suo sdoppiarsi, rispecchiarsi, cercare di liberarsi sono Andreyna De la Soledad e nei panni di Francesca Woodman una Sara Bonci dolce e violenta, che recita con un'intensità che coinvolge tutta se stessa, dai capelli alle dita dei piedi. La scena di Alberto Favretto è una scatola, quasi un libro che si apre e si dispiega a creare la parete di una casa, ma molto rovinata e con tutte le crepe rosseggianti come avessero fatto filtrare drammaticamente sangue. Lo spazio è limitato a sinistra da una scrivania e a destra da una vasca da bagno, in quel bilanciarsi esistenziale e artistico tra il lato intellettuale e quello interiore, psicologico. La donna vi si muove, si agita sin dall'inizio come preda di qualcosa, in alcuni momenti quasi danzando e andando alla scoperta, misurandosi con un proprio doppio cercando di liberarsi della sua insinuante, invadente presenza, che ora compare attraverso un muro, ora la segue strisciando a terra sotto una plastica, come in una placenta, ora è una mano che da dietro si aggiunge alle sue. Persistente come l'ombra che rimane fissa sul muro anche quando la donna si allontana. Tutto in un succedersi di scene come slegate, come diversi momenti, che puntano alla perfezione visiva con le articolate e precise luci di Sander Loonen e suoni, musiche cupe e martellanti, echi industriali, ossessioni all'interno di una testa. Se si conoscono le foto di Woodman se ne riconoscono le ricostruzioni, le sbavature e sfocature, le figure piegate o quella testa magrittiana avvolta in una stoffa. Il problema è che lo spettacolo deve vivere a prescindere da questa conoscenza che lo spettatore può non avere e, quindi, il gioco rischia di apparire formalmente una serie di gesti estetici di grande eleganza che, lavorando su una situazione e non su una storia, è come puntassero a una bellezza visiva un po' fine a se stessa. Bisogna allora rimontarli, cercare di collegarli per libere associazioni come di una seduta psicanalitica, non cronologicamente, pur avendo una specie di crescendo di gesti per un'impossibile liberazione. Ed ecco lo spogliarsi di tutto per restare nuda, l'ossessivo spazzolarsi con violenta energia i lunghi capelli, l'acqua gettata sul viso o tutto il corpo annegato nella vasca, sino all'imprigionarsi in una teca di vetro, a creare tensione drammatica. E alla fine lunghissimi applausi.
   

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