Mentre infuriano i raid aerei israeliani nel sud del Libano, nella Bekaa e persino nella capitale Beirut, con centinaia di civili uccisi, inclusi donne e bambini, in poco meno di 48 ore, la comunità estesa di Hezbollah è attraversata da sentimenti più che mai contrastanti: da un lato, i combattenti e i sostenitori del partito riconoscono i durissimi colpi subiti dal nemico, dall'altro conoscono la 'regola del sangue', per cui la guerra, dopotutto, è fatta di vittorie e sconfitte, "e chi combatte lo sa".
Un'osservatrice d'eccezione delle atmosfere interne a Hezbollah è Chiara Calabrese, ricercatrice basata a Beirut. "La gente di Hezbollah è profondamente abbattuta e sconfortata", afferma Calabrese. "Anche perché è ormai evidente quanto Israele sia riuscita a infiltrarsi a livello organico nel partito", aggiunge la ricercatrice italiana, da anni dedicata allo studio delle traiettorie personali e professionali di combattenti e membri a vario titolo di Hezbollah.
Il partito libanese è stato fondato 40 anni fa in Libano, alla metà degli anni '80, con l'aiuto decisivo dell'Iran, per combattere con una "resistenza islamica" armata l'allora occupazione militare israeliana del sud del Paese. "Lo sconforto, però, non significa che Hezbollah si senta impotente o privo della volontà di reazione. Al contrario - afferma Calabrese - c'è una richiesta pressante e diffusa di restituire colpo su colpo a Israele e di continuare la resistenza, per mantenere l'equilibrio di forze col nemico basato sulla deterrenza".
Nonostante questa determinazione, una convinzione altrettanto forte si è fatta strada tra le fila del movimento e nelle comunità che lo sostengono: nessuno vuole una guerra aperta. "Non vogliamo un'altra guerra", ripetono in molti secondo Calabrese, che riporta diverse testimonianze in presa diretta da lei raccolte durante le difficili ore seguite al raid aereo israeliano di venerdì scorso sulla periferia sud di Beirut, nel quale sono state uccise più di 50 persone assieme al comandante militare del partito, Ibrahim Aqil.
La guerra è ormai una realtà. Nonostante questo, diversi esponenti di Hezbollah si dicono convinti che "difendere la causa palestinese e gli abitanti di Gaza" rimanga una priorità. Certamente, ammettono, "il costo di un conflitto su vasta scala è molto, troppo alto. L'equilibrio con Israele, deve essere mantenuto - affermano le fonti citate da Calabrese - ma non al prezzo di un nuovo bagno di sangue".
A pesare ulteriormente è la situazione umanitaria. Diverse voci provenienti dalle comunità sciite del sud del Libano, storicamente vicine a Hezbollah, si dicono "stanche". Da anni vivono in condizioni precarie. Da un anno, circa 100mila persone del sud sono state sfollate. A queste si aggiungono le decine di migliaia fuggite in poche ore tra domenica e lunedì. Tra queste comunità si percepisce un crescente senso di disorientamento, amplificato dall'incertezza su cosa possa succedere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Hezbollah, intrappolato in questo dilemma, si trova a dover navigare tra la necessità di mantenere viva la sua missione militare e politica e la crescente richiesta, anche interna, di evitare un'altra guerra con Israele.
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