(di Paolo Petroni)
Lopachin, uomo d'affari ricco e di
successo, tanto che alla fine si comprerà 'Il giardino dei
ciliegi' dove suo padre era un misero contadino analfabeta,
canta ''ritornerai e scoprirai che nulla è cambiato; riderai,
sentendoti sola con la tua libertà'' (di Bruno Lauzi) cogliendo
quel senso di inquietudine e spensierata incoscienza della
nobildonna Ljubov, proprietaria della tenuta ormai gravemente
ipotecata e che sta per andare all'asta, la quale torna in
Russia dopo cinque anni vissuti in Francia e aver sperperato
tutti i suoi averi, con le figlie Anja e Varja.
Per chi ricorda il Cechov realistico e sentimentale de 'Il
giardino dei ciliegi' di Luchino Visconti (1965) e quello tutto
bianco e d'atmosfera di Giorgio Strehler (1974) assieme a molti
altri, questa lettura di Leonardo Lidi può essere uno shock, con
i suoi colorati abiti casual contemporanei; una recitazione che
ha un piglio e un ritmo moderni, lontani dalla vena nostalgica;
una scelta particolare degli attori che arriva a avere per la
governante Charlotta un interprete maschile (Maurizio Cardillo);
una forte sottolineatura comica del vaudeville cechoviano, con
lo sfortunato contabile Semen che pare un divertente e
acrobatico Arlecchino, grazie all'agilità, i tempi e la mimica
di Massimiliano Speziani. Tutto è ambientato poi in un
palcoscenico senza fondali o arredi tranne alcune sedie come per
concentrarsi sui personaggi e il loro parlare di nulla,
argomentare monologando e rimandandosi le riflessioni l'uno
all'altro, così che (come in 'Il gabbiano') Lidi propone una
visione e un senso generale poco mimetico, con un effetto
straniante, come si trattasse di una prova e non di una recita,
evidenziando ruoli e dialogo.
Questa essenzialità scenica, come già sottolineò Giancarlo
Nanni nel suo allestimento (2006), può rimandare il giardino e
il suo destino a quello del teatro. Così, quando Ljubov recita
il suo monologo in mezzo agli spettatori (''Io amo questa casa,
senza il giardino dei ciliegi la mia vita non ha più senso. Se
bisogna venderlo, allora vendete assieme anche me...'') non è
difficile pensare che oltre al personaggio, parli l'attrice, del
suo lavoro.
Lidi è tornato a Cechov, dopo 'Il gabbiano' e 'Zio Vanja', con
questo 'Il giardino dei ciliegi', approdato ora al Teatro
Vascello di Roma, dopo Milano, Torino e la maratona dei tre
titoli allo Stabile dell'Umbria, che li produce con lo Stabie
di Torino e lo Spoleto Festival, prima di chiudere la tournée a
Bologna (9-12 gennaio), passando a dicembre per Monza, Como e
Viterbo.
Questa sua lettura, che gioca sulla esilità della narrazione e
la destrutturazione di Cechov dei personaggi (inizio del teatro
moderno, che arriverà così a Beckett) non è meno estrema, sul
versante opposto, di quella che puntava sul realismo, dai veri
rami con fiori di ciliegio in scena alla recitazione, di
Visconti, e tutte e due hanno una loro ragione e sono da vedere
nel proprio contesto storico-culturale. Quella di 60 anni fa
faceva per tanti versi ancora parte di quello di Cechov, mentre
Lidi opera in un mondo e realtà quasi totalmente e profondamente
cambiati, in cui il teatro fa fatica a vivere, in cui non si
tollerano più lentezze, in cui l'alto e il basso hanno perso i
propri confini.
Qualcosa, certamente, di Cechov, di certe sue sottigliezze di
scrittura, va perso. In questo ballare, agitarsi e
incoscientemente far festa come sul Titanic, il vecchio mondo
rappresentato da Ljuba e la sua famiglia, quel loro non rendersi
conto di come le cose non siano più quelle di un tempo poteva
sentirsi un po' meno superficialmente e così il fondersi, con la
commedia, del dramma, anche se uno o due momenti più intensi ci
sono, grazie alla Ljubov di Francesca Mazza e al Lopachin del
bravo Mario Pirello, agitato senza eccedere e intimidito
nell'amore inespresso con la Varja di Ilaria Falini. Il
risultato alla fine si rivela così meno provocatorio di come
poteva apparire e che tutti nel secondo atto si ritrovino a
parlare, invece che attorno a una panchina nel giardino, in
costume al sole su una pedana in riva al fiume, non modifica
assolutamente il senso generale. Quello che rappresenta anche il
vecchio cameriere Firs (Tino Rossi), sin dall'inizio oramai solo
un oggetto della casa, dove resta abbandonato mentre i ciliegi
vengono tagliati e si lavora per la lottizzazione: ''Si sono
dimenticati di me... non fa nulla, io resto qui… Gioventù
scapestrata. la vita è passata ed è come non avessi vissuto'' e
apre un fazzoletto alzandolo davanti al viso come a tirare il
sipario, tra vita e teatro.
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