(di Laura Valentini)
ZAINAB ENTEZAR 'FUORCHÈ IL SILENZIO'
(Editoriale Jouvence, Pp 594, Euro 30,00)
Uomini che odiano le donne e donne che li combattono e non
rinunciano alla lotta anche quando si tratta di pagare in prima
persona con il carcere, le violenze e, se va bene, l'esilio. E'
l'affresco dell'Afghanistan moderno raccontato direttamente
dalle attiviste nel libro 'Fuorché il silenzio - Trentasei voci
di donne afghane' in uscita il 29 novembre. I testi sono
raccolti dalla regista e scrittrice afghana Zainab Entezar,
rivisti da Asef Soltanzadeh: sono trentasei le donne afghane che
si raccontano e dipingono la loro vita fino alla primavera del
2022, il momento in cui Entezar, costretta dalla latitanza,
chiude le interviste. Sullo sfondo il ritorno dei talebani nel
paese il 15 agosto del 2021, con la conseguente imposizione di
norme che negano alle donne, per l'ennesima volta in quella
terra, i più elementari diritti. Entezar all'inizio filma le
proteste: "Io e la mia cinepresa fummo testimoni di come le
donne alzavano la loro voce di fronte alla violenza e ai
pestaggi". Tuttavia le diventa presto chiaro che girare un film
è difficile e il materiale puo' andare perduto quindi pensa di
scrivere i racconti delle donne. La raccolta delle interviste e
degli scritti, iniziata il 21 dicembre del 2021, dura circa sei
mesi, con varie interruzioni a causa degli arresti. Le
testimonianze arrivano da attiviste per i diritti civili che si
sono mobilitate per manifestare il loro dissenso nei confronti
del regime. Ci sono personalità di spicco della società afghana
ma anche donne comuni, di istruzione e estrazione sociale molto
diverse tra loro. Con un denominatore comune, come osserva la
curatrice dell'edizione italiana Daniela Meneghini: "le
manifestazioni contro la negazione dei propri diritti
fondamentali e la richiesta di libertà". Un altro tratto che si
riscontra in tutte le testimonianze è la delusione rispetto alle
speranze sollevate dall'Occidente che, nel sentire generale, ha
poi abbandonato la popolazione al proprio destino di fronte al
ritorno dei talebani. "La nostra piccola speranza era che le
Nazioni Unite sarebbero sicuramente intervenute per prevenire il
loro arrivo" racconta Lina Ahmadi, avvocato e attivista che si
dice certa che le donne afghane siano sole di fronte alla
minaccia talebana. Perché Lina come tante altre si deve
allontanare dalla famiglia, deve scappare dalla sua città.
"L'arroganza mi disgusta: mi disgustano i paesi che con
arroganza incolpano il popolo afghano per il dominio talebano
affermando che non siamo degni di un sistema democratico". Del
resto "riconciliarsi con i talebani ha significato il
dissolversi di tutte le speranze della gente" dice Tamanna
Rizaei, il cui padre viene ucciso per cupidigia da un notabile
del luogo, omaggiato per la sua influenza anche dalla Nato ma in
combutta con i talebani; la ricerca di verità della giovane
donna porta all'arresto dei figli complici del colpevole che
poi, con l'arrivo dei talebani al potere, vengono liberati.
Tamanna viene arrestata e processata, riuscirà infine a passare
il confine con il Pakistan. Padri che fanno i salti mortali per
mandare le figlie all'università o che dicono loro che non
devono sposarsi fino al conseguimento della laurea: non ci sono
solo le leggi medievali dei talebani e i loro orribili soprusi
nei racconti delle donne afghane. I dimostranti anti-regime,
colpiti e arrestati sono sia uomini che donne. Ma certo le più
colpite dalle leggi repressive sono le donne e sono loro a
tenere accesa la fiaccola della rivolta: "se noi donne non
temiamo la loro repressione, il nostro numero aumenterà di
giorno in giorno, e altre donne troveranno il coraggio di uscire
dalle mura di casa per unirsi a noi" afferma Marziya Mohammadi.
La delusione per il comportamento dell'Occidente, palpabile in
tutte le testimonianze non frena la volontà di opporsi: "Se non
sopportiamo le difficoltà di oggi, ci vergogneremo per sempre
davanti alle generazioni future" osserva Zahra Mosavi. Alcune
hanno avuto una prima giovinezza drammatica. Khalida Shafi'i è
una ragazza di una famiglia povera del villaggio di Gardan-e
Dāvud nel distretto di Jaghori, una parte rurale al centro del
paese. Si avvicina al movimento delle attiviste dopo
un'esperienza di sposa bambina (14 anni) con un marito che la
picchia e la minaccia. Quando lei e due sue sorelle scappano in
Pakistan quasi non riesce a credere alla libertà che trova in
questo paese: da oltreconfine l'Afghanistan le fa l'effetto di
una tomba.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA